Nato nel 1934 a Induno Olona, Italia
Perchè, in questi ultimi anni alcuni pittori nuovi tendono, con particolare predilezione, ad abbandonare i colori a olio, o addirittura le tele, per usare materiali più vicini alle moderne industrie, sviluppando così la « pittura-og-getto »? Che cosa è dunque questa « pittura-oggetto »? Già Lucio Fontana, coi suoi strappi e tagli sulle tele, aveva in Italia, fin dall'immediato dopoguerra, superato i generi di pittura e scultura: il suo era un segno-gesto, nel clima, da lui stesso creato, dello Spazialismo, ma il quadro acquistava nuovo valore di oggetto e la superficie, anche se tagliata o bucata, risultava alla fine più nitida. Certamente gli assemblages di origine dadaista, ma in maggiore sviluppo nella Pop-art, hanno fatto sentire il fasci-no di nuove materie in rilievo: la pittura è diventata sempre più oggetto, ma non soltanto nel campo della figura-zione che contamina vita e arte, cioè della Pop-art stessa; è diventata oggetto anche nello sviluppo di tendenze più spaziali o astratte. A volte è come un ritorno totemico: l'oggetto colorato sembra imporsi con effetti magici. Altre vol-te però è un bisogno di usare materiali inediti, acri, non facilmente pittoricistici: ed anche una necessità di ridur-re alla purezza più essenziale la pittura. E' così che le strutture plastiche primarie fanno tutta una cosa con la pit-tura-oggetto: o almeno, diventano due aspetti di una ricerca che ha radici comuni. Infatti le recenti composizioni di Marzot, a cui è giunto con conseguente, interiore sviluppo di linguaggio, sono in sostanza strutturali, ma tendono alle superfici. Mi colpì, al Museo di Arte Moderna di Torino, la sua « Superficie bianca », esposta la scorsa primavera, in occasione della mostra del « Museo sperimentale »: tra le altre opere di giovani, si distingueva per il nitore della concezione e la presenza espressiva. Questa dell'arte come presenza è una idea a cui sono giunto ormai da anni, e che mi convince sempre di più: l'opera d'arte vera si impone nella sua totalità come essere vivo, come presenza necessaria, e fa intuire ciò che non è detto esternamente. Presenza vuol dire dunque vita interiore, necessità di linguaggio, superamento del gusto: e in genere implica rigore di metodo, ritmo interno, tensione chiusa (come negli esempi diversi di Juan Gris, di Malevic, di Mondrian, di Klee). Marzot, in queste sue recenti composizioni, che si possono anche chiamare « strutture pittoriche primarie », rag-giunge un ritmo largo con pochissimi mezzi espressivi, elementari: dove la curva, anche negli incontri, suggerisce l'idea dell'origine, dell'infinito, in superfici cromatiche nette. Dopo varie ricerche sperimentali, questo linguaggio di Marzot è un punto di arrivo e anche l'inizio, per altre for me primarie: è sempre un linguaggio da seguire con la mas-sima attenzione critica, perchè certamente Marzot è tra i più rigorosi e seri pittori delle nuove generazioni.
Guido Ballo
La fiducia ritrovata
Quando ho conosciuto Marzot, all'incirca venticinque anni fa, i quadri che dipingeva non avevano un riferimento diverso da quelli che dipinge oggi: erano quadri di natura. Ben diverso tuttavia appariva il modo del suo dipingere e di come egli guardava il mondo a cui rivolgeva il suo interesse. C'era una sorta d'inconfessata timidezza nelle sue immagini. Allora qualcuno poteva anche pensare che il suo modo di esprimere il proprio rapporto con la realtà dipendesse da una precisa scelta stilistica, da una decisione maturata attraverso una circostanziata coscienza poetica dei problemi. Nella sostanza tuttavia non era così. Il suo disegno era incerto perché incerta era la sua visione, il suo modo di concepire le cose. Nella verità della sua ispirazione egli, infatti, non intendeva enunciare con sicurezza ciò che invece, dentro di lui, era insicuro. Le sue immagini avevano così, di conseguenza, un che di esitante, di articolato con intima perplessità. E anche il colore obbediva alla medesima indecisione. Il pregio di quei lontani dipinti era insomma costituito dalla loro disarmante innocenza, dalla sincerità di un artista che in nessuna maniera voleva apparire ciò che non era, dichiarandosi un artista senza astuzie e malizie formali. È così che io ricordo quel primo Marzot. Certo, la sua vicenda si è pure andata complicando, perseguendo in seguito anche altre tracce dispersive, ma quel primo periodo, a mio avviso, può senz'altro offrire una chiave sicura per interpretare la strada che poi egli ha percorso e le opere che oggi ci presenta. Ce cosa è dunque accaduto in questi anni, che sembra averlo così profondamente cambiato? Indubbiamente il suo percorso è stato un modo per rimontare incertezze e perplessità, per recuperare conoscenza e tecnica, per giungere a superare gli innumerevoli sofismi celebrati dai vari sperimentalismi. Quando oggi guardo i suoi quadri, non posso fare a meno di pensare a quello che diceva qualche anno fa Claude Levi-Stauss. È una citazione che vale davvero la pena di riportare. Diceva: "Se volessi predire ciò che potrebbe essere la pittura di domani, annuncerei una pittura aneddotica e superlativamente figurativa, che al posto di rifiutare il nostro mondo oggettivo, il quale dopotutto è il solo ad interessarci in quanto uomini; oppure d'accettarlo benché tutt'altro che soddisfacente peri i sensi o per lo spirito; sia una pittura capace, con l'applicazione della tecnica più tradizionale, di ricostruire intorno a me un universo più vivibile". Ecco: oggi Marzot dipinge paesaggi, uccelli, nature morte. Si è liberato di ogni complesso, persuaso che l'inizio della nostra salvezza è in una grande riconciliazione con il nostro destino terrestre. L'occhio non ha più pregiudizi, s'allarga intorno, cerca l'orizzonte, il cielo, le nuvole; cerca i canali, le siepi, gli alberi e le erbe; cerca il silenzio, lo stupore, l'incanto. La pittura è calma e distesa, evocatrice di suggestioni segrete, mentre il colore, contrastando ogni facile parossismo, distribuisce accenti di luce e morbide ombre all'interno di una misura che è segno di un governo sensibile dell'intera composizione. La perizia, che in questi anni è andata esercitandosi in ripetute prove, resta assorbita nel generale tessuto di ogni opera, senza bisogno di ostentare i propri meriti esibendosi in giochi di bravura. È questo la sua garanzia, che sa accordare ogni momento creativo in funzione dell'esito finale che illumina l'opera di un'uguale luce espressiva. Sono dunque questi i quadri che Marzot, già da qualche tempo, dipinge, i quadri che adesso egli espone. C'è in essi una grazia, un ascoso fervore, una limpida trasparenza, che ne fa un evento confortante: il segno di una fiducia che rinasce, come la Fenice, dalle ceneri di tanto disperato e inutile cercare.
Mario De Micheli
Oltre la presunzione
Oltre alla presunzione di esibire questi miei modesti risultati, spero mi si vorrà perdonare anche quella di aggiungere queste poche righe per tentare di chiarire, per coloro che ne avessero memoria, quello che è stato il senso del mio lavoro negli anni all'incirca dal '66 al '76, in rapporto a quello attuale. Per non addentrarmi in analisi aldisopra della mia capacità intellettiva e di sopportazione di chi legge, solo questo: fu necessario. Per lacerare lo schermo di convenzioni teso tra i nostri occhi e le cose, fu necessario partecipare al processo di auto-analisi e auto-digestione del linguaggio dell'arte, fino alle sue estreme, pericolose conseguenze. Il paradiso dell'apparenza non si svela se non a chi, coscientemente o no, è disceso fino al fondo dell'inferno della smaterializzazione (del linguaggio). Coloro che si erano fermati alla prima apparenza vagano in un limbo larvale di sterili scorie impermeabili alla luce. L'apparenza ritrovata risplende della luce interna della verità totale. Questa nuova realtà che, con la pittura, si è cercato quì di inseguire ha, come qualità predominante, la sospensione del tempo.
Livio Marzot