Rodolfo Aricò - Bio

Nasce il 3 giugno 1930 a Milano. Frequenta il Liceo Artistico di Brera, l'Accademia e la Facoltà di Architettura al Politecnico di Milano. La sua prima personale è del 1959 al "Salone " di Milano. 

Nel 1962 è invitato a "Palazzo di Re Enzo" a Bologna alla manifestazione Nuove prospettive della pittura italiana. 

Nel 1964 è alla Biennale di Venezia. Roberto Sanesi, nel 1965, gli dedica un volume dal titolo Reperti: per Uno studio della pittura di Rodolfo Aricò. Giulio Carlo Argon presenta la personale alla Galleria "L'Attico" di Roma nel 1967. 

Nel 1968 ha una sala alla XXXIV edizione della Biennale di Venezia. Espone a Milano al "Salone " nel 1970 contemporaneamente con lo "Studio Marconi". Gillo Dorfles lo invita ad una mostra a Barcellona, nel 1971 per un omaggio a Joan Mirò, nello stesso anno riceve l'incarico dell'insegnamento di Scenografia presso l'Accademia di Urbino.

Nel 1973, Maurizio Fagiolo lo invita alla mostra lononrappresentonullaiodipingo allo "Studio la Città'" di Verona. È invitato ad una antologica a "Palazzo Grassi" di Venezia da Roberto Sanesi, nel 1974; nell'occasione riunisce le opere che aveva programmato fin dal 1968 come work in progress. 

Nel 1975 invitato da Giancarlo Politi, è dapprima a Montreal e poi a Parigi. E' a Verona e Rimini, invitato da Giorgio Cortenova; a Milano allo "Studio Marconi" e a Roma alla Galleria "Rondanini" con una mostra Spazio attivo / struttura curata da Guido Ballo.

Nel 1976, Maurizio Fagiolo lo invita ad una mostra II colore nella pittura a Forlì. L' anno successivo il Comune di Ferrara gli mette a disposizione Gli spazi del Padiglione d'Arte Contemporanea di Parco Massari per una Mostra antologica. Gianni Contessi, nel 1978, lo invita insieme a Franco Pardi. Gianni Colombo, Giuseppe Uncini e con gli. architetti Aldo Rossi, Ajmonino e Franco Purini per una mostra I nodi della rappresentazione allestita nelle sale della Pinacoteca di Ravenna. In quest'anno, realizza una scenografia per il teatro dell'assurdo di Tardieu al Teatro Pier Lombardo di Milano.

Nel 1979 Tommaso Trini lo invita alla mostra Sistina alla Fiera dell'Arte di Bologna. L' anno dopo è alla "Casa del Mantegna" a Mantova per una Antologica organizzata da Gianni Contessi. 

Nel 1981, Nello Ponente lo invita alla mostra Linee della ricerca artistica italiana, 1960 / 80 al "Palazzo delle Esposizioni" a Roma. Nello stesso anno partecipa a 30 anni d'Arte Italiana 1950/80, la struttura emergente e linguaggi espropriati, a Villa Manzoni di Lecco. 

Nel 1982, Aldo Rossi lo invita alla triennale di Milano per la Mostra Idee e conoscenza. 

Nel 1983 è a Bologna, Galleria d'Arte Moderna e a Baden-Baden. Il museo d'Arte Moderna di Milano gli acquista un'opera del 1976 e lo invita al PAC, dove nell' 1984 espone opere recenti e concepite negli anni 1976 / 69 / 70.

Nel 1985 è ancora a Milano, Palazzo Dugnani per partecipare ad una mostra L'intelligenza dell'effetto. L'anno seguente partecipa alla mostra itinerante, curata da Flavio Caroli 1960/1985, aspetti dell'Arte Italiana, prima a Francoforte, poi a Berlino, Hannover, Bregenz e Vienna; è invitato alla XLII "Biennale di Venezia" nella sezione II Colore; Luciano Caramel lo invita ad una mostra alla Galleria Morene. 

Nel 1987, per una personale, presenta opere destrutturali alla Galleria Marconi di Milano; è invitato da Concetto Pezzati alla mostra Disegnata alla "Soggetta Lombardesca" di Ravenna; Luigi Meneghelli lo invita alla mostra 20 anni fa alla Galleria "La Città" di Verona; Eberard Simons lo invita a Monaco e poi a Igostadt. 

Nel 1988, G.M.Accame lo invita alla mostra Ragione e trasgressione all'ex convento di San Rocco di Carpi. 

Nel 1989 e 1991 allestisce una personale alla Galleria "Turchetto / Plurima" di Milano, dove presenta una serie di lavori recenti. 

Nel 1992 è invitato a Moconesi (Torino) per una mostra intitolata "Progetto Dioce" con un'opera del 1965 di richiamo orfico. 

Nel 1993 con una personale alla "Lorenzelli Arte", Aricò compone una serie di opere di metri 200 x 300 che finalizzano il suo orientamento verso quel che ama definire del Senso. Sono opere che uniscono alla componente estetica quella della emozione. 

Nel 1994 allestisce due mostre personali: una alla Galleria Plurima di Milano e l'altra a Mantova alla Galleria Corraini. 

Nel 1995 è invitato ad una antologica per le Sale della Rocca Paolina di Perugia. 

Nel 1996 allestisce una personale alla Galleria Plurima di Udine. 

Nel 1997, mostra personale intitolata: "Sere" Alla Galleria Aorte, Milano. 

Nel 1998, è invitato alla mostra "Arte italiana. Ultimi quarant'anni. Pittura aniconica". Galleria d'Arte Moderna, Bologna. 

Nel 1999 è invitato all'Esposizione Nazionale Quadriennale d'Arte di Roma.

Nel 2001 tiene la sua ultima mostra personale presso lo Spazio.

Muore nel 2002.

Giulio Cassanelli - Esposizioni

Nasce a Bologna il 22 Giugno 1979.

 

 

Solo Exhibitions

Kairos, LABS Gallery, Bologna 2015

Kairos, MUST GALLERY, Bologna 2015

Project Room, Fondazione Palazzo Magnani, Reggio Emilia 2012

Respirare, Grossetti Arte Contemporanea, Milano 2012

 

 

Group Exhibitions

StreetScape 4, Como 2016

“patchwork #2, MUST GALLERY, Svizzera - Lugano 2015

#NuoviCodici, VIII Biennale di Soncino, (Palazzo Stanga Trecco) Cremona 2015

Heart Modulation I & II, Galleria Grossetti, Venezia2015

ARIA (Trasparenze), LUIS Università Guido Carli, Roma 2015

“patchwork, MUST GALLERY, Svizzera - Lugano 2014

Pulsar_Arte e musica dallo spazio, INFINI.TO – Planetario di Torino, Torino 2014 

La Creazione, Mostra dei finalisti del Premio Artivisive San Fedele, Milano 2014

bRIGHETTIcASSANELLI, Art Jungle, Reggia Venaria Reale, Torino 2013

Artour-o, Premio GAT, Firenze 2013

Follow Fluxus, Fondazione Palazzo Magnani, Reggio Emilia 2012

Oltre l’Attimo, Grossetti Arte Contemporanea, Bologna 2012

Una collezione che attraversa il tempo – 1958/2011, Grossetti Arte, Milano 2011

White Meditation Room, Grossetti Arte Contemporanea, Bologna 2011

Past Is Not Alone, XI Biennale di Istanbul 2009

Imprimatur 2, Sant’Elena, Venezia 2009

Target With Seven Faces, Galleria Emmeotto, Roma 2009

On Rail – Arte Mobile, Manifesta7, Bolzano 2008 

Arte Fiera, Arte Fatta a Pezzi, Bologna 2008

 

 

Art Fairs

Arte Fiera, MUST GALLERY & LABS Gallery, Bologna 2016

Arte Fiera, MUST GALLERY & LABS Gallery, Bologna 2015

The Others Fair, MUST GALLERY, Torino 2014

SetUp Art Fair, Bologna 2014

Arte Fiera, Zak Project Gallery, Bologna 2013

 

 

Prizes

Finalista Premio San Fedele Arti Visive, 2014 

Artour-o, Premio GAT, Firenze 2013

Selected Work, Premio Celeste, 2009

Giulio Cassanelli - Bio

Nasce a Bologna il 22 Giugno 1979.

Da giovane inizia ad avvicinarsi alla ricerca artistica attraverso la macchina fotografica e un lungo processo di formazione ed esperienze lavorative. Si concentra sulla mutevolezza dell'estetica e inizia a cercare dei soggetti fotografici che possano custodire le piccole variazioni di un “bello continuo”. Dal 2008 la ricerca si sofferma su alcuni soggetti di scarto per mettere a fuoco l’unicità che il tempo regala agli oggetti abbandonati.

In questo periodo la ricerca si muove verso nuovi medium e inizia lo sviluppo della tecnica pittorico/performativa che gli permette di colorare le bolle di sapone in volo, per catturarne prima dell'esplosione, una traccia unica e irripetibile. 

Dal 2015 lavora tra Italia e Svizzera.

Mats Bergquist - Esposizioni

Nasce a Stoccolma nel 1960.

MOSTRE PERSONALI

 

2010

Weinberger Gallery, Copenhagen 

Silent Prayer, Grossetti Arte Contemporanea, Milano 

2009

Galleria Johan S, Helsinki March 

Konstruktiv Tendens, Stockholm

2008

Weinberger Gallery, Copenhagen 

Konstruktiv Tendens, Stockholm

2007

Gallerie de Suede, Paris 

2006

Nordiska Galleriet, Stockholm 

Konstruktiv Tendens, Stockholm

2005

Dalarnas Museum, Falun

2003

Amedeo Porro, Milano 

Boffi Showroom, Milano

2000

Weinberger Gallery, Copenhagen 

1999

Nilufar, Milan 

1998

Doktor Glas Gallery, Stockholm 

The Gallery, Växjö 

Sölvesborg Konsthall 

1997

Södermanlands Museum, Nyköping 

Weinberger Gallery, Copenhagen 

1994

The Gallery, Växjö 

Doktor Glas Gallery, Stockholm 

Ann Westin Gallery, Stockholm 

1991

Eralov Gallery, Rome 

1988

The Gallery, Växjö 

1987

Christina Gallery, Eskilstuna

Lång Gallery, Malmö 

1984

Sten Eriksson Gallery, Norrköping 

1983

Gunnar Olsson Gallery, Stockholm

 

 

MOSTRE COLLETTIVE

 

2010

Arte Fiera Bologna, Grossetti Arte Contemporanea, Bologna 

MiArt, Grossetti Arte Contemporanea, Verona

2009

Selection, Grossetti Arte Contemporanea, Milano

ArtVerona, Grossetti Arte Contemporanea, Verona 

Art Cologne, Grossetti Arte Contemporanea, Verona 

2008

Choice, Grossetti Arte Contemporanea, Milano 

2007

UNALINEACONTINUA, Grossetti Arte Contemporanea, Milano

 

 

LAVORI PUBBLICI

 

2009

Novy Dvur, Repubblica Ceca

2008

Sweden House, Bruxelle

1995

Arrhenius laboratory, Stockholm University

 

 

Mats Bergquist - Testi

Nasce a Stoccolma nel 1960.

 

Dark with invisibile bright - Alcuni indizi sulla pittura di Mats Bergquist

Tatto.

Nella pittura tradizionale si può descrivere il percorso tra il pittore e il pubblico come quello tra la mano e I'occhio; la mano del pittore da forma a un'immagine, a una superficie che viene accolta dall'occhio dell’osservatore. Per Mats Bergquist la strada è diversa. Qui la mano ha dato forma a un'immagine - o una mancanza d'immagine, dipende da come si definisce immagine - che comprende anche il tatto. Toccare queste superfici accoglienti è forse il modo giusto per vivere questa pittura.

Iconicità. 

Un'arte cosi tattile la incontriamo già nella tradizione iconografica bizantina con l'inizio dell'alto medioevo, una tradizione che ancora esiste nella cristianità greco-ortodossa. L'icona è una tipologia figurativa con severe regole per motivo, composizione, modo di rappresentare e scelta del materiale. II rappresentato, Cristo, Maria, il santo, ha una presenza immediata nell'immagine; toccarlo è un modo per partecipare alla divinità. L'immagine non è una rappresentazione ma una incarnazione, non indica, è.

Noli me tangere. 

A volte troviamo un divieto di toccare nella pittura di Mats Bergquist. In un dittico composto da due quadrati neri, legati dall' essere I'uno concavo e I'altro convesso, la parte concava ha una superficie del tutto opaca e senza riflessi, cosi fragile che ogni contatto lascerebbe impronte. Però forse non si tratta di un divieto di toccare, ma piuttosto di un monito alla prudenza, del suggerimento che ogni contatto lascia tracce (... di un monito di fronte alla profondità di un abisso).

Sottofigura. 

In letteratura svedese si usa la parola "undertext" per significati che stanno in uno strato al disotto del senso più immediato; al disotto del testo sta quel significato che dà vita al testo, in qualche modo I'essenziale. In pittura si potrebbe parlare di sotto figura, come di quella o quelle immagini che si trovano sotto ciò che è immediatamente visibile. Nel caso di Mats Bergquist queste sono più facili da immaginarsi. Chi può sapere quali sono le immagini che c'erano una volta, che ci sono ancora ma coperte, che l'artista si era immaginato ma non ha mai eseguito? Un'immagine invisibile però illuminata, illuminata da disotto..."Dark with invisible bright" mi sembra che John Milton scriva in Paradise Lost. Non è cosi?

Carl-Johan Malmberg

 

 

Là dove tutto è già avvenuto e tutto continua

Raramente si pensa, nell'osservare un’icona del XVI secolo, al di là della sua pregnanza pittorica, alle incredibili vicende che l’hanno preceduta. Se si rileggono le cronache, ormai storia, conseguenti ai vari editti e concili relativi all’iconoclastia e al ripristino del culto di quelle immagini, si resta sgomenti e increduli di quanta tensione, sofferenza e dedizione abbiano potuto suscitare. Quell'epopea attorno a cui si sono qiocati destini personali di uomini di religione ma anche strategie di imperi laici e di gerarchie ecclesiastiche si può dire che giunga, quasi con eguale spinta, sino all’alba del nostro secolo, nella stessa Russia, dove l’icona ha conosciuto una parte considerevole delle sue origini e dei suoi caratteri.

La straordinaria intuizione suprematista di Malevich ha dischiuso, con il Quadrato nero (1913) un estremo capitolo di quella epica tradizione pittorica mistica. E a lui tutta la pittura del Novecento deve la possibilità di riconquista autorevole dello spazio del quadro come luogo di supremo pronunciamento di un credo morale non oggettivo. Quanto fosse fondata l’azione intrapresa da Malevich, cioè radicata nella cultura ortodossa iconografica e quanta al contempo fosse rivolta a dischiudere su quel fondamento una nuova possibilità per la pittura a venire, si può oggi definitivamente apprezzare e misurare, sia in ordine alle conseguenze che dalla sua opera in poi si sono prodotte, sia in relazione al drammatico esito della vicenda personale e della sua stessa generazione, preannunzio, incompreso allora, della catastrofe successiva in cui sarebbe stato coinvolto il suo paese e la stessa storia europea. L'oscuramento dell’immagine evoca una consunzione, un lento logoramento, uno stratigrafico deposito di agenti esterni alla pittura come la polvere, il fumo o altri elementi che col tempo si sono sovrapposti alla primitiva azione dell’artefice.
Ma nel gesto del pittore del XX secolo, la scelta del campo oscuro, della sottrazione cromatica, reca una determinazione radicale, una volontà di introdurre un grado zero necessario per chiudere ogni precedente proposizione e poter riaprire ogni altra possibile speculazione.

È a quella fonte critica di tutta la pittura precedente e al contempo estremamente rigogliosa che credo si debba coniugare l' opera odierna di Mats Bergquist.
La quale, se pur si giova di altre, più articolate vene di alimentazione, non esclusa quella di un ritorno alla disciplina meditativa costante, che di ogni autentica spazialità è il movente generatore, ha sempre avvertito la necessità di ritrovare un proprio registro su quella supremazia di univocità cromatica. Se si osserva, infatti, il processo che ha portato Bergquist alle opere attuali documentate in queste pagine, ci si accorge di come egli abbia costantemente compiuto la medesima scelta linguistica, cioè quella della considerazione del campo cromatico inoggettivo, pressoché uniforme nella stesura del colore, tendenzialmente mono, bi o tricromatico, puramente astratto, mediante l'uso del colore opaco o scarsamente brillante. Anche quando si retrocede alle opere concepite e realizzate a Farfa In Italia, bicromatiche e a strisce alternate, che taluno ha voluto confrontare con le superfici dl Buren, a mio avviso impropriamente, giacché il francese (come Mondrian) non ha mai aderito alla linearità diagonale né alle stesure di cancellazione o abrasione, presenti invece nell' opera di Bergquist, la scelta cromatica è ridotta a pochissime valenze. Peraltro il ciclo di quelle opere dei primi anni Novanta potrebbe essere più coerentemente raffrontato con certo alfabeto pittorico di Sol LeWitt, dedito a forme di righe in vari colori e in bianco e nero, realizzate persino in alcuni wall drawings in Italia.

Le opere di Bergquist realizzate a Farfa, Senza titolo, a base di oli e ossidazioni su rame, di varie dimensioni, già formulano, al proprio interno, una qualità umbratile che più compiutamente e nitidamente si riafferma dunque in questo estremo ciclo della fine degli anni Novanta. A una più stringente sequenza di relazioni tra questi recenti lavori e il resto dell'opera di Bergquist vanno invece ricondotte sia le prime 'icone' di cui scrive subito il filosofo coetaneo Hans Ruin, stavolta evocando giustamente il 'sacro' e talune relazioni con l'opera di Barnett Newman, sia il considerevole gruppo di tempere realizzate tra il 1995 e il '97 su diversi supporti e di diverse dimensioni da me stesso osservate nella mostra ordinata nel museo di Södermanlands di Nyköping in Svezia, durante un viaggio nel '97.

Se per quell'arco della sua produzione Bergquist lasciava intendere che la sua scelta di parzialità poteva benissimo aver tratto le mosse da certa iconografia veneta e soprattutto dal fondo disadorno di motivi e tripartito di quella tavola di Alvise Vivarini Madonna col Bambino che egli stesso indica alla lettura critica di Nina Weibull, quale matrice possibile delle sue tempere, quel riferimento non appare ormai che come la dinamo d'avviamento o, se si vuole, il caposaldo di un moto progressivo di affinamento verso una misura interiore che all'icona e alle sue potenzialità rivolge, ormai da tempo, un preciso investimento emozionale e riflessivo. Per un'analoga suggestione, ricordo che la disposizione spaziale dell'Intera mostra osservata a Nyköping, evocava a me un'altra opera dell'Umanesimo, quel dipinto del Beato Angelico sullo scoperchiamento di sepolcri, in prospettica fuga dal sarcofago principale verso un aperto paesaggio. Già nelle opere di quel biennio, si afferma una spazialità che reca una forte valenza di rapporti proporzionali tra i campi cromatici in cui ciascuna tempera è strutturata; di solito due o tre o più campiture confinanti a comporre dittici come Interior (1995) o il Triptyk (1995) o Lazarus (1997) di quattro parti, o Senza titolo (1996) di grandi dimensioni (305x 230). Inoltre, le tavole già presentano la superficie ricurva che ora è divenuta un elemento distintivo di minore o maggior evidenza, ma costante in ogni opera. La curva impressa a quelle opere, oltre a rammemorare una naturale deformazione a cui molte tavole antiche sono andate soggette, sia tra le piccole icone sia tra le grandi pale, conferiva alla superficie un lieve rigonfiamento, quasi un respiro trattenuto, tale da stemperare la riquadrata rigidità delle tavole. Nella pittura monocromatica degli anni Sessanta - Settanta, a questa
valenza spaziale del rigonfiamento della superficie con evidenti ed enfatici effetti di aggetto aveva rivolto la propria attenzione Graubner, giungendo a risultati interessanti. Ma in Berqquist l'attenzione per la stondatura delle superfici è evidente recupero di quella curvatura 'storica' delle tavole, quasi una citazione.

In tema di riferimenti, invece, quelle opere osservate a Nyköping sembravano avere regole proporzionali e rapporti cromatici più dialettici con la pittura di Brice Marden degli anni Settanta - Ottanta, piuttosto che con quella di Günther Forg, per quanto quest'ultimo si mostrava più mobile e volubile nell'uso dei supporti e nella stessa modalità di impiego del colore; l'ortodossia pittorica e spaziale di Marden, ritmicamente armoniosa e proporzionalmente incline al rapporti aurei, sembra poter essere chiamata, relativamente, in causa per fornire qualche precedente di riferimento a quel trascorso di Bergquist.
Ma con questo ultimo germoglio della sua creazione che approfondisce l'aspetto riduzionista già presente nell'impianto linguistico di tutta la sua opera, Bergquist conferma, sia dal punto di vista concettuale che tecnico, la sua inclinazione alla inoggettività iconografica e al contempo un interesse deciso per la sfera operativa nodulogica.

Recentemente, l’approfondimento di Bergquist verso interessi meditativi rivolti alle pratiche Zen ha riaffermato una sua radicalizzazione nella scelta delle varianti cromatiche delle opere che si sono definite attorno all'antinomia del rapporto tra il nero e il bianco. Le nuove opere infatti, attestate quasi esclusivamente sull'elaborazione di tavole con la tecnica della produzione delle icone a base dunque di supporti lignei rivestiti di tela di lino, trattati con vari strati di colla di coniglio, gesso e pigmenti, con interventi di abrasione delle superfici preventivamente munite di curvatura e rifinite con l'encausto, sembrano affermare l'assolutezza delle scelte dietro cui si muove un pensiero neo-suprematista, la cui ortodossia concettuale investe anche la sfera del vissuto.

Da tale orientamento sono emerse, nelle residenze di Bassano del Grappa e di Marostica, dove attualmente Bergquist lavora la serie delle cento Guide (1998) ispirate al film di Tarkowsky Stalker - moduli lignei che alla sommità della superficie bianca o diversamente scurita dall'encausto come dopo una combustione, recano una zona marginale nettamente nera ottenuta col nero di vite e col nero avorio di rilevante opacità. Accanto a quella teoria di lavori esaltati da una manualità premurosa e austera, sono altresì emerse opere come Icona (1998) come Codex (1998) di gran respiro, entro cui si leggono regole proporzionali ben definite e di notevole equilibrio. Tra i legni adoperati per i supporti, si osservano il ciliegio, il tiglio e il pero ungherese. Con quest'ultima fibra è realizzata un'altrettanto variegata serie di volumi cubici concepiti con diverse quote anch'essi tuttavia recanti una sola faccia lievemente ricurva e ribassata, come una volta tirata dai quattro vertici del volume. Pur essendo concepiti come 'insieme', le singole unità cubiche possono occupare lo spazio quali 'frammenti' privi di vocazione assoluta, come invece le grandi tavole rivendicano.

Tutte queste ultime morfologie ribadiscono il valore primario e supremo del corpo dell'opera, della sua desertificazione e spoliazione da orpelli narrativi, una necessità di versamenti gestuali iterativi e dunque dominati dal tempo che assieme alla sensibilità per il colore, o meglio, all'attitudine alla sua sottrazione, hanno determinato l'aspetto di manualità meditata e vissuta, come una preghiera, di ognuna di queste opere. Fronte nuovamente avanzato di una intensità spirituale che del 'sacro' condivide l'autenticità della mozione interiore e l'invisibilità resa manifesta dal gesto compiuto sui materiali, sulle loro proporzioni.
Mediante atti di nuova trasformazione, sorvegliata dal desiderio oetico, di mettere in equilibrio l'ombra e la luce, la stasi e l’osmosi, l'assente e il vivente.

 

 

Altri testi

2000, Gioiello, Bruno Corà

1984 Carl-Johan Malmberg, in “Paletten” nr 1

1991 Carl-Johan Malmberg, in “Kris” nr 43-44

1992 Cecilia Casorati, Mats Bergquist

1993 Hans Ruin, in “Next” nr 29

1995 Hans Ruin, Om Mats Bergquist Konst

1997 Nina Weibull, M.B.

2000 Bruno Corà in “Là, dove tutto è già avvenuto e tutto continua”

2004 Stefania Portinari in “View Magazin”

2008 Carl-Johan Malmberg, in “Dark with invisible bright”

Stefania Portinari in “Messe in opera per Palladio”

2011 Guido Schlimbach, “Alles was wir wünschen”, in: Via Lattea, Kunst-Station Sankt Peter (Kat.)

2012 Angela Holzhauer, “Seelenruhe”, in “oT Magazin”, Sept./Okt.

Vita von Wedel, Kunstmarkt, in “Frankfurter Allgemeine Sonn- tagszeitung”

Gabriele Amadori - Testi

Nato a Ferrara nel 1945. Vive e lavora a Milano.

“Lo spazio” serve proprio a tale scopo, poiché la funzione fantastica non è che questo: riserva infinita d’eternità contro il tempo (…. ) Lo spazio è nostro amico, la nostra atmosfera spirituale, mentre invece il tempo corrode.

Gilbert Durand, Les structures anthropologiques de l’imaginaire

Il fascino profondo e anche un po’ misterioso (estetico, religioso, onirico, mitico) che emana dall’azione pittorica di Gabriele Amadori evocata,accesa e stimolata da una qualche partitura sonora, nasce e risiede a mio parere da e in una singolare e vigorosa consapevolezza antropologica. 

La sapienza e la potenza rituale della sua “celebrazione” (ma potremmo benissimo dire della sua infatuazione o della sua possessione) hanno come epicentro lo scontro (e non certo l’incontro), il conflitto fatale e di-sperato tra l’eufemismo spaziale creato e ricreato infaticabilmente dalla fantasia e l’annientamento della disgregazione operato dal tempo. Si tratta di un nucleo simbolico di memorie remote, ma piuttosto ancestrali, sul quale Amadori opera una elaborazione, anzi una interpretazione perfettamente moderna e ineccepibilmente laica.

Un passaggio del grande antropologo Gilbert Durand da “Les structures anthropologiques de l’imaginaire” sembra scritto ad hoc per l’azione di Amadori: « La rappresentazione nella sua totalità si erge contro l’annientamento portato dal tempo, specialmente la rappresentazione in tutta la sua purezza di anti-destino: la funzione fantastica rispetto alla quale la memoria non è che un incidente. La vocazione dello spirito può essere soltanto di insubordinazione all’esistenza e alla morte».

Prima di iniziare l’azione scenica Gabriele Amadori traccia sulla grande tela le coordinate spazio-temporali: qui il consolidarsi delle strutturazioni e la crescente saturazione cromatica dello spazio comprimono e imprigionano il tempo nei suoi infiniti interstizi; in questa battaglia, in questa lotta (per gli attori alla lettera corpo-a-corpo), tra l’erosione entropica della astrazione temporale e il consolidarsi nell’ispessimento materico di uno spazio euclideo, il rito collettivo (Amadori, i musicisti, ma da subito anche il pubblico) conferma simbolicamente proprio dentro la spazialità la patria della funzione fantastica; l’origine della straordinaria e utopica eversione contro il destino della caducità, della perdita e della morte.


«Proprio per questa ragione profonda – scrive Durand commentando Bergson – l’immaginazione umana è modellata prima dallo sviluppo del vedere, poi dall’udire e infine dal linguaggio: tutti mezzi di apprendimento e di assimilazione “a distanza”. Appunto in questa riduzione “eufemizzante” della distanza e del distacco sono contenute le qualità dello spazio». Non è, direbbe Piaget, lo spazio immediatamente percettivo; ma piuttosto quello rappresentativo che si apre all’apparire della funzione simbolica, strettamente legato all’azione poiché “la rappresentazione spaziale è un’azione interiorizzata”.


La formula che abbiamo spesso utilizzato a proposito di Amadori “vedere la musica e ascoltare la pittura” evidenzia proprio la specificità di uno spazio densamente simbolico di rappresentazione (teatrale, rituale, persino liturgica, sovente onirica e visionaria) dentro il quale anche la temporalità musicale (tempi, ritmi, scansioni) si metamorfizza aprendosi, strutturandosi, assestandosi in ambiti simbolici; in nuclei di resistenza di una durata che affronta con determinazione la minaccia del silenzio e del nulla di prima e di dopo.
D’altra parte l’azione di Amadori non fa che sottolineare la nostra tendenza naturale a trasformare percezioni e sensazioni di ogni tipo in temi visivi e in immagini: a tal punto che proprio la terminologia delle arti musicali è essa stessa “visiva”: volume, misura, crescendo, simmetria, eccetera.


La mediazione rituale ovvero in questo caso il conduttore energetico della contrapposizione tra “l’amicizia” eufemizzante dello spazio e l’ostilità dispersiva del tempo non è costituita dalla materialità agita dei colori, degli impasti, delle campiture, delle pennellate, delle sgocciolature, degli spruzzi; ma direttamente e costantemente dalla corporeità integralmente impegnata dell’attore che, sulla scena, spalanca, costruisce, percorre distanze traducendo in rappresentazione simbolica la fuga del tempo che lambisce e dilava rischiosamente anche i confini esterni del recinto sacro del rito di luce.


Il fascino esercitato dalla gestualità febbrile e controllata dell’artista nella progressiva strutturazione cromatica di uno spazio “vuoto” sta proprio nell’accumularsi visivo di una energia simbolica generosa e benefica, capace di incentivare la speranza di una possibile insubordinazione della facoltà immaginaria contro l’insostenibile irreversibilità del tempo.

Milano, Novembre 2004
Pietro Bellasi

 

 

CHAMBER PAINTING MUSIC

“Tempo / Spazio / Suono / Colore”

Gabriele Amadori è un creatore atipico. Poco portato a parlare di sé, restio di fronte ad ogni retorica, persegue da molti anni una strada coraggiosa e solitaria: quella della ricerca interdisciplinare tra arte, musica, architettura e scenografia. Incurante delle mode culturali, Amadori inscena visioni fluttuanti di ombra e di luce; disegna scene e costumi per opere liriche in tutto il mondo, progetta installazioni luminose per monumenti, spazi urbani e mostre; realizza performance in una metamorfosi costante di gesti, suoni e colore. Profondo conoscitore della musica, della storia del teatro, docente di scenografia al Politecnico, Gabriele ci sollecita a “vedere” la musica e “ascoltare” le immagini.

È a queste forme di espressione e di sintonia che Amadori si è più dedicato, cercando consonanze tra suoni e colori nella musica di Bela Bartok, di Luigi Nono come anche nei Tableau Vivant, una lettura strutturale delle musiche di Franco Donatoni. Ma è soprattutto con la costruzione del suo teatrino delle meraviglie dedicato all’interpretazione fantastica fatta di forme e colori del Flauto Magico mozartiano che Amadori giunge a una forma di poesia visiva da grande maestro e profondo conoscitore delle arti.

Amadori nelle sue Action Paintings converte le astrazioni musicali in materia, movimento, colore cangiante, strato su strato, realizzando un’esperienza che per molti sembrerebbe impossibile: la trasformazione apparentemente “spontanea” della tela sotto le pennellate successive che diventano movimento, le ondate melodiche accompagnate dai suoi gesti che danno forma ai segni.

La ricerca di Amadori in questo campo ha una storia lunga cominciata con Demetrio Stratos nel 1976 trent’anni fa. Le composizioni di Amadori restituiscono unità al gesto creativo, riportano lo spettatore, l’ascoltatore a ritornare a quell’unità del sentire, di sensibilità, di finezza percettiva, sollecitando un’epifania spazio/temporale al tempo stesso moderna e primordiale.

Gabriele Amadori è nato a Ferrara il 30/10/45 , vive e lavora a Milano.

Anna Detheridge
Il Sole 24 Ore

Gabriele Amadori - Bio

Nato a Ferrara nel 1945.

Gabriele Amadori si è formato negli anni Sessanta presso il centro sperimentale multimediale della Laterna Magika di Praga. È stato assistente di Vedova, Baratella e allievo di Arcangeli. 

Gabriele Amadori, pittore, scenografo e light designer, è un creatore atipico. Poco portato a parlare di sé, restio di fronte ad ogni retorica, persegue da molti anni una strada coraggiosa e solitaria: quella della ricerca interdisciplinare tra arte, musica, architettura e scenografia. Incurante delle mode culturali, Amadori inscena visioni fluttuanti di ombra e di luce; disegna scene e costumi per opere liriche in tutto il mondo, progetta installazioni luminose per monumenti, spazi urbani e mostre; realizza performance in una metamorfosi costante di gesti, suoni e colore. Profondo conoscitore della musica, della storia del teatro, docente di scenografia e light design al Politecnico di Milano e alla Scuola d'arte drammatica Paolo Grassi di Milano, Gabriele Amadori ci sollecita a “vedere” la musica e “ascoltare” le immagini.

È a queste forme di espressione e di sintonia che Amadori si è più dedicato dal 1970, cercando consonanze tra suoni e colori nella musica di Béla Bartòk, di Luigi Nono come anche nei Tableau Vivant, una lettura strutturale delle musiche di Franco Donatoni. Ma è soprattutto con la costruzione del suo teatrino delle meraviglie dedicato all’interpretazione fantastica fatta di forme e colori del Flauto Magico mozartiano che Amadori giunge a una forma di poesia visiva da grande maestro e profondo conoscitore delle arti e della multimedialità.

Amadori nelle sue Performance di Music Painting converte le astrazioni musicali in materia, movimento, colore cangiante, strato su strato, realizzando un’esperienza che per molti sembrerebbe impossibile: la trasformazione apparentemente “spontanea” della tela sotto le pennellate successive che diventano movimento, le ondate melodiche accompagnate dai suoi gesti che danno forma ai segni.

Gabriele Amadori muore a Milano nel giugno del 2015.

Gabriele Amadori - Esposizioni

Nato a Ferrara nel 1945. Vive e lavora a Milano.

Come pittore, ha partecipato a due biennali di Venezia nel 1968 e nel 1976, al “Salon de la Jeune Peinture” a Parigi nel 1974 e “Dokumenta” a Kassel nel 1972. Nel 72 ha vinto il premio J.Mirò di Barcelona e in seguito altri importanti riconoscimenti internazionali. Nel 1976 è stato invitato alla Biennale di Venezia. Nel 1976 e nel 1980 ha partecipato a due edizioni della Quadriennale di Roma, a “Modus”, al Louisiana Museum di Copenhagen nel ’79, International Triennale of Contemporary Art, Yokohama J. 1983, Art Chicago 1987, “Arteitalia “ al Museu da Imagem e do Som a Sao Paulo nel 1990, Projekte “Fundamenta MM” “Art and Technology / Stadthaus Ülm D. nel 1994, Fondazione Cini Art: Tolerance and Intolerance Venezia ’95, Stoccolma 1998 città europea di Cultura, Berlin Kunstmesse 1999, 50° Unesco Paris 1999, Bologna 2000 Città Europea della Cultura, Politecnico di Milano Dipartimento di architettura 2008, Kunst Art Bolzano 2008.

Dal 1967 ad oggi ha esposto le sue opere in musei e gallerie pubbliche e private in Italia e in altri paesi dell’Unione Europea: Centro Attività Visive, Palazzo dei Diamanti di Ferrara ’67, ’69, ’76 e ’79; Galleria del Naviglio Venezia ’69, ’74 e ’76; Centre Culturel International Migros, Deneve ’72 e ’76; Galleria Civica di Arte Contemporanea di Reggio Emilia ’76 e ’79; Reflex Gallery, Copenhagen ’82; Galleria Soldano Milano ‘74, ’76, ’80 e ’84; Galleria Borgogna Milano ’78 e ’84; Rotonda della Besana Milano ’84; Galleria Vinciana Milano ’87; Studio Marconi Milano ’87; “ACA Munich” Munchen ’88, Bremen Kunsthaus ‘91 e '95; Fondazione Pagani Varese ’91 e ‘99; Kunstlerhaus Breme ’93; Gallerie S.Hoffman Paris ’93 e ’94; Aktionsforum Praterinsel Munchen ’94; Fondazione Mazzotta Milano ’96; “La Grande Scala” Galleria d’Arte Moderna Bergamo ’96; “Chamber Painting Music” Galleria Arte Contemporanea Regionale Palazzo Mediceo Lucca ’98; Istituto Italiano di Cultura Stockholm ’98; Eos Fabrica Milano ’99; Galeria Ana Rubira Barcelona ’86 e ’99; Centro Cultural de Belem Lisboa ’99; Artdependent Meraner Galerie ’01; Hangar Bicocca Milano ‘05; Galleria Grossetti contemporanea Milano ’06; Fondazione Maimeri Milano ’06; Fondazione Cini Ferrara ’06; Galleria Miro Praha ‘07; Galerie ArtSEE Zurigo ’07.